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 ANTROPOLOGIA
         CULTURALEE GEOPOLITICA NELLO STUDIO
 DEI CONFLITTI
 di Ida Magli PROLUSIONE ANNO
      ACCADEMICO -5 NOVEMBRE 1998 - ACCADEMIA AERONAUTICA DI POZZUOLI
 Introduzione
  Nel tentativo di essere il più
         utile possibile nel breve tempo di questa prolusione, cercherò di
         presentare soltanto alcuni temi principali fra quelli che sono
         coinvolti nel problema attuale dei conflitti e che l'antropologia
         culturale ha sviluppato e approfondito. Se conoscere i costumi dei
         popoli è stato sempre importantissimo per fare la guerra, come ben
         sapeva Cesare, rimasto fino ad adesso il miglior conoscitore dei Galli,
         è forse ancora più importante oggi in cui si tende ad evitare che le
         guerre scoppino. Purtroppo, però, l'antropologia culturale, pur
         essendo la scienza che maggiormente potrebbe aiutare a capire le cause
         e a guidare nella direzione più proficua coloro che devono
         fronteggiare questi problemi, è fra tutte le scienze umane quella che
         viene meno utilizzata dai politici e dai governanti. E' quindi con un
         particolare senso di gratitudine che ringrazio il generale Arpino e il
         comandante dell'Accademia di Pozzuoli che hanno voluto proprio un
         antropologo per l'apertura di questo anno accademico.  1) Concetto di cultura  Una premessa indispensabile al
         nostro discorso riguarda il concetto di "cultura". Il termine
         "cultura" è stato così voracemente banalizzato dai mezzi di
         informazione che ne è andata persa quasi completamente la forza, il
         suo aver segnato una tappa fondamentale nella conoscenza dell'uomo. La
         cultura è un "insieme complesso" di costumi, di norme, di
         valori, di categorie del pensiero, che si intersecano, interagiscono e
         plasmano la vita di ogni gruppo, così come la personalità degli
         individui appartenenti a quel gruppo. La sua presenza però è quasi
         del tutto inconsapevole, sia a livello cognitivo che a livello
         psicologico. Su questa inconsapevolezza è necessario intendersi bene:
         la cultura è un ambiente totale ovvio, senza del quale non
         potremmo sopravvivere neanche per pochi minuti, come per la mancanza di
         ossigeno. Tuttavia ogni individuo respira automaticamente e il più
         delle volte vive senza sapere di che cosa sia formata l'aria che lo
         tiene in vita. Così la cultura. Essa alimenta continuamente il nostro
         pensiero, le nostre emozioni, il nostro linguaggio, perfino la nostra
         postura fisica, la nostra mimica, ma è talmente "ovvia",
         apparentemente naturale, che ci siamo accorti della sua esistenza e ci
         siamo decisi a studiarla (ossia a farla uscire dall'ovvio) soltanto da
         pochissimo tempo. Le scoperte che questo studio ha comportato suscitano
         inoltre una tale ansia, una tale preoccupazione che in genere si
         preferisce continuare ad ignorarle, fingendo di averle già assimilate
         (da qui la banalizzazione di cui parlavo all'inizio). L'ansia, la
         preoccupazione sorgono soprattutto perché con il riconoscimento
         dell'esistenza della cultura, si è praticamente giunti a toccare il
         limite massimo dell'esercizio del Potere, quello del quale non sono
         stati consapevoli ieri, e non sono consapevoli oggi, neppure coloro che
         lo detengono e lo adoperano. Alludo con questo al "piano di
         potenza" nascosto nella sacralità. Ma non utilizzare le
         conoscenze culturali, sia all'interno del nostro gruppo che nella
         comunicazione con gli altri gruppi, è come usare un codice senza
         conoscerne il significato, pronunciare i suoni e scrivere i segni di
         una lingua senza sapere che cosa dicono. Tanto più, quindi, è
         indispensabile per voi dato che occuparsi di conflitti, sia in termini
         di difesa che in termini di attacco, significa comunque stabilire la
         più forte delle comunicazioni prevedendone le risposte. Credo che,
         almeno in questo, i militari e gli antropologi siano alla pari: non si
         conosce mai nulla tanto bene quanto ciò che ci sta dicendo l'altro.
         Intendo dire che, sia per gli antropologi che per i militari, è
         indispensabile conoscere tutto dell'altro e al tempo stesso
         identificarsi nei suoi sentimenti, nella sua intelligenza, nella sua
         capacità d'azione: insomma bisogna imparare ad essere l'altro,
         a pensare come l'altro, a sentire ciò che sente l'altro. Proprio
         quello che impara a fare l'antropologo il quale, come diceva uno dei
         primi grandi antropologi, Franz Boas, deve continuamente entrare e
         uscire dalla propria cultura per assumere "il punto di vista
         dell'indigeno". Questa analogia con i militari mi fa tanto più
         piacere in quanto lo scienziato oggi non riesce a comunicare con coloro
         che detengono la leadership perché questi, politici o giornalisti che
         siano, sfuggono alla concretezza delle cose, ricercando e inventando
         continuamente idee e vocaboli ad hoc, funzionali a quello che essi
         desiderano che gli uomini siano o diventino, e non a quello che gli
         uomini irriducibilmente sono.Ogni cultura possiede una "forma" (nell'accezione
         gestaltica del termine). Ossia l'insieme di tratti che la costituisce
         assume un profilo significativo, "logico", dal quale non è
         possibile distaccarsi senza mettere in crisi tutta la forma. Questo
         modello complessivo scaturisce, in un incessante processo di
         stimolo-risposta-stimolo, dalle religioni. Ogni religione infatti è
         una "visione del mondo": lo spiega nelle sue origini e nelle
         sue mete, e detta i comportamenti logici rispondenti a questa
         spiegazione. In altri termini, l'Uomo ha bisogno di trovare un senso
         alla propria vita, e questo senso se lo è costruito attraverso le
         religioni. So che può apparire eccessivo oggi a chi vive in una
         società apparentemente laica un assunto così drastico. Ma in realtà
         il concetto di cultura è soltanto la conquista di un distacco
         oggettivante che siamo riusciti a compiere nei confronti delle
         religioni. Come vedrete subito, i temi di cui l'antropologo parla
         rappresentano una specie di "anatomia del sacro", di quel
         "piano di potenza-potere" che fino all'arrivo degli
         antropologi era rimasto tabuizzato in un suo particolare campo
         cognitivo, definito di volta in volta come filosofia, come teologia,
         come storia delle religioni, ecc.
  2) Un popolo è un Io  Ogni popolo è come un
         individuo. E' un individuo. Questa è la norma fondamentale da tenere
         presente. E l'individuo, quali che siano le sue capacità
         intellettuali, le sue conoscenze, i suoi sentimenti, pensa e agisce
         sempre secondo una logica. (Come tutti sappiamo, anche nel delirio di
         chi ha perso il principio di realtà sussistono dei legami logici).
         Ogni popolo, dunque, ha, come l'individuo, un suo Io, punto di
         riferimento della sua identità, indispensabile per potersi sempre
         riconoscere al centro della vita, al centro del tempo e dello spazio,
         dal quale stabilisce quale sia il Nord e il Sud, con una memoria del
         passato in rapporto alla sua data di nascita, una previsione del futuro
         senza il quale non potrebbe orientarsi per sussistere neanche un
         momento. Questo Io non può essere messo a rischio senza che tutta la
         personalità ne venga disgregata. Cosa questa che i governanti quasi
         sempre dimenticano, ritenendo di poter plasmare i popoli secondo i loro
         propri desideri, e secondo ciò che ritengono sia meglio per i popoli
         stessi. Ma nessun individuo, neanche il più disturbato mentalmente,
         accetta di essere deprivato dell'Io perché sa che da questo dipende la
         sua sopravvivenza come essere umano. Subentra qui una ulteriore
         riflessione, anch'essa fondamentale. Per una serie di motivi che per
         ragioni di brevità sono costretta a lasciare alla vostra intuizione, i
         governanti occidentali sono portati a dare oggi primaria importanza ai
         bisogni organici, alla sopravvivenza biologica: la fame, le malattie, i
         bambini... Ma se fossero davvero questi i bisogni primari, la specie
         umana sarebbe identica alle altre specie animali, le quali appunto
         hanno l'unico scopo di sopravvivere. E per giunta questa specie
         pericolosa per la .Natura in quanto si moltiplica devastando il
         Pianeta. Per l'uomo invece la sopravvivenza organica è strumento
         indispensabile per i propri scopi e non la sua meta. Di questo non c'è
         bisogno di dimostrazione, in quanto tutta la storia dell'umanità lo
         testimonia. Tuttavia, se qualche prova fosse necessaria, non abbiamo
         che da guardare allo stesso strumento encefalico di cui la Natura ha
         fornito l'Homo Sapiens. L'eccesso di capacità cognitiva, le
         connessioni neuroniche che generano la memoria, la proiezione
         quasi totale all'esterno dell'organismo (il linguaggio è già una
         proiezione all'esterno) sono in funzione di una vita che va quasi
         totalmente al di là dei bisogni organici, e che crea dei bisogni
         altrettanto organici e più determinanti di quelli che provvedono
         all'esistenza vegetativa.Mi sono soffermata su questo tema, che pure dovrebbe essere
         soltanto una premessa all'argomento che ci sta a cuore, perché in
         realtà la strategia politica dell'Occidente costituisce un errore
         gravissimo non soltanto nei confronti dei popoli altri (poveri, in via
         di sviluppo, o come altro si vuole chiamarli cercando di evitare di
         pronunciarne il nome) ma anche nei confronti di noi stessi. Sebbene
         l'antico principio del panem et circences abbia
         dimostrato innumerevoli volte di essere sbagliato, in quanto non regge
         alla lunga durata, sfociando o in una rivoluzione o nella fine di una
         cultura, coloro che guidano, in un campo o nell'altro, la politica
         mondiale, sembrano più che mai convinti che i bisogni dell'Uomo (o
         debbano essere) quelli del "pane" e della "pace".
         Il che significa appunto prefiggersi di ottenere un organismo satollo,
         e rilassato nella "non tensione".
 Questo tipo di politica, per quanto possa essere in buona fede
         (ma non ne sono sicura), dettata dai buoni sentimenti che si riassumono
         nella solidarietà, nel "complesso di salvazione" che assilla
         il mondo cristiano, è tuttavia terribilmente ingiusto, oppressivo, e
         pone le premesse per uno stato di continua, feroce conflittualità, cui
         però abbiamo dato il nome di "pace". Si porrebbe qui il
         problema se "tensione" si configuri necessariamente come
         "aggressività", problema che lascio alla vostra riflessione,
         limitandomi però a segnalarvi che non si può e non si deve sottrarsi
         a questo interrogativo fondamentale. Lo stato di quiete è davvero
         quello che soddisfa l'Uomo?
  3) Territorio e Spazio sacro  I bisogni culturali, dunque,
         sono primari. Quando una cultura viene disintegrata, i popoli si
         estinguono.Detto questo, accenno qui soltanto ad alcune delle strutture
         fondamentali sulle quali è sempre organizzata una cultura, invitandovi
         a riportarvi con la mente a titolo di esempio, a quei luoghi in cui
         oggi sono in atto dei conflitti. Prima di tutto il
         "territorio".
 Se un popolo è come un individuo, ha bisogno di uno spazio suo,
         di una casa in cui è padrone e che lo difende dai pericoli esterni.
         Così come ognuno di noi, entrando e uscendo chiude la porta della
         propria casa, così un popolo ha bisogno di sapere qual'è la propria
         porta, e la stabilisce nei cosiddetti "confini". Questi
         possono essere individuati nella natura dell'ambiente: un fiume, una
         collina, una montagna, una scogliera, un lago, un mare, un deserto, una
         foresta. Oppure l'uomo li crea: muri, palizzate, torri, sentinelle,
         dogane. Comunque è indispensabile per un popolo conoscere, vedere sia
         pure soltanto con gli occhi della mente, qual'è il suo territorio,
         sentirvisi al sicuro perché nessuno può entrarvi senza che lui lo
         sappia. Un confine dunque è indispensabile in quanto nel momento
         stesso in cui crea comunicazione, ne mette il controllo nelle mani di
         coloro che lo possiedono. E non vi stupisca che la ricerca di un
         confine territoriale concreto sia diventata oggi quasi più pressante
         che in passato. L'impero sovietico (ma è soltanto un esempio fra i
         tanti possibili) aveva messo a tacere con la forza questo bisogno, che
         è esploso subito dopo la caduta del Muro proprio perché era stato
         così a lungo conculcato. Lo ripeto: è un bisogno fortissimo perché
         è organico-culturale. E sarebbe bene che i governanti non si facessero
         illusioni in proposito: la comunicazione globale come strumento
         positivo ha aumentato a dismisura l'ansia e l'attaccamento degli
         individui e dei popoli nei confronti del proprio spazio, della propria
         porta. Questa anzi, più diventa estesa la comunicazione, più deve
         essere ristretta, perfettamente conoscibile e controllabile. (Credere
         di poter eliminare i confini, come si sta facendo per l'Europa, è un
         tragico errore: la premessa di terribili conflitti futuri, oppure di
         una sempre maggiore insicurezza e fragilità dei popoli che vi vivono,
         i quali diventeranno perciò rassegnati alle invasioni straniere e alla
         perdita della propria identità.)
 Il proprio territorio è "sacro". Il sacro è potenza.
         Il territorio dunque è sacro perché, dato che io vi ho camminato, è
         carico della mia essenza, è diventato "potente" perché
         partecipe di me, della mia stessa potenza, diversa da quella di tutti
         gli altri. Naturalmente il modo più forte che un popolo possiede per
         affermare la sacralità del proprio territorio, è quella di
         attribuirne l'assegnazione alla divinità. Il pensiero va subito, come
         è ovvio, alla Palestina. Ma il problema di questa sacralità è più
         grave (o almeno si è costituito come diverso dalla sacralità di tutti
         gli altri territori) perché è connesso al principio del popolo
         eletto. Monoteismo, elezione, unicità del territorio sono
         inestricabilmente connessi fra loro, e non c'è diplomazia al mondo che
         possa mettervi ordine, salvo che per qualcuno di questi popoli venga
         meno, si esaurisca, il significato che ne è alla base. Cosa questa
         però che non può avvenire se non con la fine storica di una cultura.
 Mi spiego: gli Ebrei sono l'unico popolo, fra tutti quelli che
         gli antropologi conoscono, che ha avocato a sé la causa della morte,
         si è riconosciuto responsabile dell'ingresso della morte nel mondo. Ma
         l'ha potuto fare, o meglio ha avuto il coraggio di farlo, perché ha
         simultaneamente riconosciuto l'esistenza di un unico Dio creatore degli
         uomini, e ha affermato di essere l'unico prediletto di questo Dio. In
         altri termini, il monoteismo è un tutt'uno con la predilezione.
         Soltanto se Dio è uno solo, io posso essere il prediletto. E soltanto
         se sono il prediletto posso mettermi di fronte a Lui,
         rivendicare di essere pari a Lui con l'aver provocato la morte, ossia
         di aver distrutto quello che Lui ha creato, la vita. (Non so se lo
         sapete, ma affinché quanto vi dico non vi sembri troppo lontano dalla
         nostra realtà, il nuovo Catechismo della Conferenza episcopale
         italiana, afferma ancora che "Dio non ha creato la morte".
         Eppure noi conosciamo ormai scientificamente i meccanismi biologici e
         non siamo , o almeno crediamo di non esserlo, dei pastori nomadi di
         ottomila anni fa).
 La potenza di un popolo è connessa con la potenza-sacralità
         della terra sulla quale poggia i suoi piedi. Faccio un solo esempio:
         noi siamo soliti stendere una stuoia sul percorso che devono compiere
         le Autorità. Si tratta di un ultimo, debolissimo segnale del fatto che
         sono più "potenti" di noi, e che quindi la terra dei comuni
         mortali deve essere "separata" (concetto di confine) dalla
         sacralità della loro potenza. Ma pure noi, ultimi degli ultimi,
         segnaliamo la sacralità del nostro territorio. Mettiamo infatti un
         tappetino davanti alla nostra porta: l'ospite quindi sa che supera il
         territorio profano entrando con i piedi non più contaminati dal
         territorio esterno, nella potente sacralità del nostro. Noi siamo
         talmente abituati a questo a segnale brandello ultimo di sacralità del
         territorio che lo decodifichiamo subito: più il tappetino è
         "spesso" (ossia separa maggiormente dalla terra) davanti ad
         una porta, più è importante (potente) la persona che vi abita.
 I musulmani, popoli culturalmente nomadi anche quando non lo sono
         più, come sapete portano sempre con sé la sacralità del proprio
         territorio, ossia il proprio tappetino. Ma per l'Uomo nessun simbolo
         sussiste mai se non sussiste la cosa concreta di cui è segnale. Per
         questo dunque, per gli ebrei come per i musulmani, la terra sacra
         originaria non può essere eliminata. E permettete all'antropologo di
         dirvi che il conflitto per la Palestina perdurerà. Soltanto una forza
         coercitiva assolutamente dominante potrà per qualche tempo tenerlo a
         bada. Oppure - e io ne vedo molti sicuri segnali - saranno gli Ebrei
         ancora una volta a perdere la battaglia. E insieme agli Ebrei, tutti
         noi, l'Occidente, l'Europa soprattutto. Perché il modello culturale
         ebraico-cristiano è, non soltanto diverso, ma opposto. Ossia procede
         verso una direzione di marcia logica opposta a quella musulmana.
 4) Identità etnica = identità
         religiosa  A questo punto mi permetto di
         farvi presente che è un grave errore da parte dell'Occidente cercare
         di non riferirsi mai o di non mettere in causa le religioni. Si tratta
         di un tentativo che in antropologia, tecnicamente sarebbe definibile
         come "evitazione". Ma non nominare ciò che si teme non
         serve, se non a livello magico, ad evitare la realtà. Sia dunque ben
         chiaro che, come ho già detto all'inizio, una cultura è religione.
         Oppure, come molti antropologi non hanno esitato ad affermare: la
         religione è la cultura.E' quindi privo di senso tentare di tenere fuori dall'analisi dei
         conflitti le religioni. Del resto basta guardarsi intorno. Anche
         accantonando la disputa sulla Palestina, tutte le altre aree culturali
         di conflitto sono chiaramente agitate da identificazioni di popoli con
         religioni, e di conseguenza, dall'appartenenza dei rispettivi
         territori. La ex Jugoslavia ha visto in campo da parte nostra
         l'evitazione nominalistica delle religioni, chiamando i popoli: Croati,
         Serbi e "musulmani", cosa che, oltre ad essere grottescamente
         erronea visto che non si possono assimilare le pere con le mele, è
         anche del tutto inutile. Si tratta di cattolici, ortodossi e musulmani
         perché l'identità etnico-politica è sempre strutturata sulla base
         dell'identità religiosa. E naturalmente, della potenza sacra del
         territorio di coloro che vi risiedono. Lo stesso accade, s come è
         noto, nell'Irlanda del Nord, in molte zone della Russia, come per
         esempio la Cecenia, e in tante altre aspre contese di cui cerchiamo in
         Occidentale di sapere il meno possibile proprio perché coinvolgono
         identità religiose in cui prevalgono i cristiani. Basti accennare a
         tutta quella parte dell'Africa, dall'Algeria alla Somalia, al Ruanda,
         in cui terribili violenze nascono da identità etnico-religiose che
         cercano di delimitare il proprio territorio. L'Occidente ha reso
         tragicamente irrisolvibile la situazione perché, con la solita
         sicurezza che i propri valori siano i migliori, ha imposto la
         democrazia come un tempo imponeva il battesimo. Naturalmente la
         democrazia fa parte di una cultura e non può quindi essere inserita in
         altre culture senza disintegrarne la forma. Di qui il caos presente in
         questi paesi.
 Spesso i governanti occidentali si abbandonano alla dolce
         speranza che sia possibile una pacifica convivenza fra etnie diverse
         con le loro religioni diverse. Viene di solito portata ad esempio
         quell'America che l'Europa non ama molto ma che, quando fa comodo,
         viene elogiata come terra di felicità. Ebbene l'analogia con gli Stati
         Uniti d'America è assolutamente falsa. A parte il fatto che anche
         negli Stati Uniti esiste un alto tasso di conflittualità e di violenza
         fra i vari gruppi etnici, le differenze con l'Europa sono radicali.
         Prima di tutto il "territorio", nella sua enorme estensione,
         nella sua poca densità demografica, ma anche nei suoi significati,
         quegli stessi significati sui quali ci siamo già soffermati.
 L'America è "terra di arrivo" per tutti e non soltanto
         per quelli che oggi consideriamo immigrati. E' terra di arrivo per
         prima cosa per gli Americani stessi. Ma essendo vastissima, in buona
         parte disabitata, oppure abitata all'inizio da piccoli gruppi la cui
         presenza culturale non è stata percepita come importante, l'America si
         presenta come terra libera di salvezza per tutti i popoli. Prima di
         tutto per quelli che vi sono giunti: gli Americani. Gli immigrati dalla
         Francia, dalla Germania, dalla Russia, dall'Italia, dalla Grecia, dalla
         Cina, dal Giappone sono "nuovi" in America tanto quanto sono
         "nuovi" gli Americani Tutti ugualmente portatori di
         un'antichissima civiltà, ma tutti liberi da questa, anche
         conservandola, perché conquistatori di uno spazio, di un territorio
         sconfinato, lontanissimo, sia concretamente che psicologicamente, dal
         "resto del mondo". Noi infatti, anche se è buffo, li
         consideriamo un popolo giovane. Comunque c'è anche lì il problema
         dell'integrazione dei negri, che non è ancora risolta malgrado sia
         stata combattuta per loro una terribile guerra civile, sia passato
         tanto tempo e siano stati fatti enormi sforzi per superarla. La prima
         legge territoriale di cui di solito in Europa ci si dimentica, portando
         ad esempio l'America, è quella della densità demografica. Sento
         spesso dire, in Italia, soprattutto dalle autorità ecclesiastiche, che
         degli immigrati c'è bisogno a causa della denatalità. Si tratta di un
         macroscopico errore. L'Italia (ma lo stesso discorso potrebbe essere
         fatto per molti altri paesi europei d'Occidente quali la Germania, la
         Francia, il Belgio, la Spagna), soffre di una sovrappopolazione
         addirittura assurda, essendo più che raddoppiata nel giro di un
         secolo. Nel frattempo sono diminuiti i territori abitabili a causa
         degli errori compiuti dalla politica nazionale e da quella europea per
         disincentivare l'agricoltura, con l'abbandono di montagne, di boschi,
         di colline, e con l'erosione dei litorali. La densità per chilometro
         quadrato della popolazione italiana è sufficiente a spiegare (a parte
         altre molte cause sulle quali non mi posso soffermare) la denatalità:
         28 abitanti per Km2 negli Stati Uniti, 190 in Italia. E' la Natura
         stessa, infatti, a dettare le leggi della regolazione demografica. Con
         l'incremento della popolazione immigrata si crea infatti un circolo
         perverso: data la radicale diversità etnico-culturale della
         maggioranza degli immigrati, i governanti incitano gli italiani ad
         abbassare le difese culturali nel tentativo di rendere più accettabili
         le differenze. Ma questa rinuncia alla propria cultura scoraggia dal
         mettere al mondo dei figli che ne dovrebbero essere e non potranno
         esserlo, i prosecutori.
 Quello che mi interessa mettere in luce è che il terreno dei
         massimi conflitti, sia attuali che per il prossimo futuro, è lo
         scontro fra le identità musulmane con tutte le altre presenti nel
         mondo. E questo a prescindere dall'effettiva fede religiosa. Infatti,
         proprio perché una religione è una cultura, si può, come di fatto
         avviene oggi, non essere credenti, ma continuare ad appartenere ad una
         cultura che è stata strutturata su una religione. Ci sono adesso molti
         Ebrei non credenti, ma che rimangono ebrei; molti cristiani non
         credenti, ma che rimangono cristiani. Cosa questa che non avviene ai
         musulmani perché il loro modello culturale non segue, e non può
         seguire, il percorso verso la laicità (il che significa appunto la
         nascita di una società distinta da quella religiosa). Il percorso
         verso la laicità è stato avviato esclusivamente dalla cultura
         ebraico-cristiana, e non è compatibile con quella musulmana.
  5) Il divenire del Tempo  Si tratta di affrontare a questo
         punto quell'altra struttura fondamentale di ogni cultura che è la
         concezione del tempo.Una concezione che per noi adesso è scontato ritenere "in
         divenire", ma sulla quale dobbiamo piegarci per comprendere come
         si sia sviluppata e che cosa comporti dal punto di vista del futuro
         delle culture. La domanda fondamentale potrebbe essere questa: perché
         la scienza, quella sperimentale, sulla quale oggi si evolvono le
         conoscenze in tutto il mondo, è nata proprio da noi? Ossia in
         quell'Europa (sia permesso dire in quell'Italia) che è stata
         contraddistinta dalla cultura cristiana? Il pensare scientifico, come
         voi sapete bene, consiste prima di tutto in un atteggiamento cognitivo
         che si fonda sul dubbio. Fare scienza non è avere certezze, ma avere
         dubbi. Dubbi che non accettano mai risposte definitive, perché, una
         volta trovata la risposta a una domanda se ne pone subito un'altra che
         nasce dalla risposta precedente. La tecnologia, naturalmente, segue lo
         stesso itinerario di sviluppo. E' sempre divenire perché non si
         accontenta mai del risultato; ma parte da quel risultato per costruire
         un modello migliore, più perfezionato, con la certezza che anche
         l'ultimo modello non sarà l'ultimo perché ha posto le premesse per il
         futuro modello ancora più perfezionato.
 Bene, tutto questo che sembra quanto mai ovvio in quanto è
         logico, rappresenta viceversa una conquista. E una conquista che è
         stata possibile perché, prima con l'ebraismo e poi con il
         cristianesimo, si è creata una concezione del tempo "mossa",
         tesa verso un futuro, quindi divenire. Si è trattato di una scoperta
         fondamentale perché, viceversa, tutte le culture si sono sempre basate
         su una concezione del tempo "fissa", basata sulla Natura, in
         cui le stagioni ritornano sempre uguali, il "ciclo" segue un
         percorso che ritorna sempre su se stesso. Voi pensate forse che quei
         popoli, per noi "selvaggi", che non conoscono e non contano
         la propria età non siano capaci concettualmente di farlo? No, non è
         così. Semplicemente il loro modello culturale è
         "rassegnato", adeguato alla vita della natura. Se sono un
         cacciatore, se sono un agricoltore, se le mie divinità sono delle
         divinità della caccia, della terra, non presenta nessun interesse per
         me sapere in quale anno vivo perché quello che conta è se mi trovo in
         inverno o in primavera, se gli animali che debbo cacciare sono più
         facili da catturare in una certa stagione piuttosto che in un'altra.
         Pertanto gli anni, lo scorrere degli anni, non esiste. Sono stati gli
         Ebrei a inventarsi un tempo che è effettivamente "tempo", un
         tempo non naturale, ma culturale, ossia umano, basato sull'Uomo. Come
         ho già detto, nel momento in cui hanno attribuito a se stessi
         l'ingresso della morte nel mondo, gli Ebrei hanno stabilito una cesura
         nella fissità del tempo, ed hanno quindi imposto alla circolarità del
         non-tempo naturale, un tempo che è valido soltanto per l'uomo: quello
         dell'attesa. Attesa della salvezza.
 Voi capite che "attendere" significa proiettarsi verso
         il futuro. Nasce una prima forma di tempo in divenire: aspetto che
         arrivi il Messia, dunque "aspetto". Il tempo quindi non può
         essere più ciclico, non può più ricominciare sempre uguale a se
         stesso, perché qualcosa avverrà di assolutamente nuovo che cambierà
         il tempo attuale. Il tempo così diventa concezione della vita, assume
         una "direzione di marcia" in avanti, lineare, e fonda la
         "storia".
 Da questo punto di vista, si capisce bene quello che ha fatto
         Gesù di Nazaret: ha chiuso la cultura ebraica, che è fondata
         sull'attesa, dicendo: "Il tempo della salvezza è arrivato".
         Cosa è successo allora? Gesù è stato ucciso proprio perché la
         cultura ebraica avrebbe dovuto finire se si fosse dato seguito suo
         annuncio. I potenti non lo potevano permettere, perché il Potere,
         sempre e ovunque, si basa prima di tutto sulla sacralità di un tempo
         fondato da loro, che quindi è rivolto alla conservazione del passato,
         all'autorità di ciò che è già avvenuto, alla "festa". La
         festa infatti è sempre il passato, l'accadimento "accaduto".
         (Lascio a voi sviluppare questo tema sul quale non posso soffermarmi,
         ma che è fondamentale per comprendere i processi del Potere.)
 I seguaci di Gesù gli hanno creduto in un certo senso
         "troppo", in quanto essendo ebrei hanno concluso che se
         l'attesa era finita, era finita anche la vita. Di qui la convinzione
         che fosse prossima la fine del mondo. Ma non era questo che intendeva
         Gesù di Nazaret. Lui intendeva "liberare" gli ebrei
         dall'immobilità anche dell'attesa, che, per quanto meno fissa del
         tempo ciclico, era comunque paralizzante: una specie di
         "aspettando Godot". Il suo messaggio di libertà totale sotto
         questo aspetto era eversivo, nel senso assoluto del termine, in quanto
         cambiava totalmente i significati della cultura, e del Potere che vi si
         fondava: quello dei sacerdoti, degli interpreti della Scrittura. In
         fondo, dire l'attesa è finita, significava: cominciate finalmente a
         vivere la vita vera. Quella sulla terra, liberi, capaci di guardare al
         futuro costruendovelo con le vostre mani, senza sapere cosa avverrà.
         E' per questo che dicevo che l'atteggiamento cognitivo verso il futuro
         che non torna mai su se stesso, è nato con Gesù.
 I cristiani, però, essendo prima di tutto ebrei, hanno pensato,
         come ho già detto, che fosse prossima la fine del mondo. Ma la vita
         non è finita. Di qui l'itinerario faticoso, sempre ostacolato dalle
         autorità sia della Chiesa che civili, ma in definitiva
         "libero" dei cristiani, e che sbocca inevitabilmente nel
         Rinascimento, nella centralità dell'Uomo, nella scienza, nel tempo in
         un divenire, in un futuro senza più limiti. Noi contiamo il nostro
         tempo dalla nascita di Cristo. Ma in realtà nessuno, credente e non
         credente, pensa oggi che sarebbe possibile tornare indietro contando
         dal 1997 invece che dal 1998. In altri termini: il divenire del tempo
         è una conquista cognitiva ormai incancellabile, così come è
         impossibile cancellare la storia, o ritornare indietro nella vita di un
         individuo. Questo del resto, è l'unico modo per capire che le
         religioni sono la struttura fondamentale di ogni cultura, e che, per
         oggettivare le culture, bisogna accantonare il concetto di fede o di
         trascendenza. (Naturalmente qui stiamo parlando in termini di scienza,
         senza voler ferire la sensibilità religiosa di nessuno).
 Tutto questo discorso sulla concezione del tempo è
         indispensabile per comprendere quale sia il motivo per il quale il
         modello euro-occidentale non sia compatibile con quasi nessun altro
         modello. Tanto meno con il modello musulmano, o con quello dei popoli
         africani che sono rimasti per la maggior parte animisti e quindi fermi
         al tempo naturale. Maometto non ha capito né la concezione del tempo
         ebraico, quello dell'attesa, né quello del cristianesimo, il tempo in
         divenire. Era fondamentalmente fermo alle religioni antiche, a quella
         araba anti-ebraica, anche se si è avvalso dell'Antico Testamento per
         le sue strategie politiche. E' soltanto per una forma di inerzia
         ideologico-storica che il musulmanesimo è incluso fra le religioni
         ebraico-cristiane. Il modello musulmano però, ci pensi bene
         l'Occidente, è un modello vincente. Perché è adatto a tutti i popoli
         che non hanno alle spalle né la cultura romana, né quella greca, né
         quella ebraica, né quella cristiana. Ossia praticamente tutti i popoli
         che, una volta dispersa la cultura originaria, come in Africa e nel
         Medio Oriente, trovano nell'islamismo una forma religioso-culturale
         semplice, vicina a quella naturale animistica, e di affidamento ad una
         divinità protettiva e forte. Il modello culturale occidentale sembra
         (sottolineo "sembra") vincente, perché la tecnologia cammina
         al di sopra e al di là delle culture. Ma adoperare il telecomando o
         guidare l'automobile non cambia molto ai significati culturali perché
         le culture sono ereditate, per lo meno a livello epigenetico. Altro
         problema questo, molto complesso, che lascio alla vostra riflessione.
 Concludo, quindi, aggiungendo soltanto una parola al nostro tema
         fondamentale, quello legato ai conflitti per i territori. L'antropologo
         sa forse meglio di qualsiasi altro scienziato, che per la specie umana
         non esiste "concreto" che non diventi immediatamente
         "simbolico"; ma che, inversamente, non esiste
         "simbolico" che non abbia o non tenda ad avere qualche
         riferimento "concreto". Sia permesso quindi sollecitare i
         politici, e i militare che possono collaborare con i politici nei
         problemi che riguardano i conflitti, e quindi necessariamente i
         territori, a non dimenticare mai che un popolo può sopravvivere senza
         un territorio concreto, ma non senza uno simbolico La storia degli
         Ebrei e degli Zingari ne costituisce il migliore esempio. La cultura
         ebraica ha una forza indistruttibile perché ha sempre portato con sé
         una terra simbolico-concreta, malgrado la dispersione del popolo. Gli
         Zingari sopravvivono, ma la loro cultura è definitivamente morta
         perché priva di una identità territoriale.
 Affido a voi, ai militari dell'aria, il compito di non
         dimenticarlo mai, con la sicurezza di averlo affidato nelle mani
         migliori. Le mani di chi sa meglio di chiunque altro come la terra, i
         confini imposti dall'uomo alla terra, siano presenti e invalicabili
         perfino nella immensa libertà dell'aria.
 Ida Magli    Bibliografia
         essenziale  - Benedict, Ruth, Modelli di
         cultura, Feltrinelli, Milano 1960- Boas, Franz - General Anthropology, Heath, New York 1938
 - Kluckhohon, Clyde - Kroeber, Alphred, Il concetto di cultura,
         Il Mulino, Bologna 1972
 - Kroeber, Alphred, Antropologia, Feltrinelli, Milano 1987
 - Leeuw van der, Gerard, Fenomenologia della religione, Einaudi,
         Torino 1960
 - Lowie, Robert, Primitive Religion, Routledge and Kegan, New
         York 1924
 - Mauss, Marce~ Teoria generale della magia e altri saggi,
         Einaudi, Torino 1965.
 Fra le opere di Ida Magli più strettamente pertinenti agli argomenti
         trattati:
 - Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 1982
 - Contro l'Europa, Bompiani, Milano 1996
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